“Bitcoin: strumento o prodotto finanziario?” (Cassazione penale sez. II, 17/09/2020, n.26807)

Il Tribunale di Milano, con sua ordinanza del 21 gennaio 2020, respingeva il ricorso contro decreto di sequestro preventivo di rilevante somma di danaro nonché di carte di prelievo, dispositivi elettronici e cellulari a carico di indagato per i reati di cui all’art. 110 c.p. e art. 648 bis c.p. (concorso in riciclaggio), D. Lgs. n. 58 del 1998, art. 166, comma 1, lett. c) (abusivismo finanziario di chi offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento) e art. 493 ter c.p. (indebito utilizzo e falsificazione di carte di credito e pagamento).

Nel caso in esame, era stato utilizzato un conto corrente bancario alimentato con bonifici di denaro provenienti da una truffa e da un furto di identità; il saldo era stato immediatamente girato su di un conto estero, aperto on line, con l’utilizzo di un’utenza telefonica riconducibile a famigliare di uno degli indagati.

Dall’esame delle movimentazioni del conto estero emergevano, fra i movimenti in uscita, delle ricariche PostePay successivamente utilizzate per l’acquisto di criptovalute: la prima di queste per acquisto perfezionato tramite sito web dedicato, la seconda inviata ad uno degli altri indagati che aveva dichiarato di avere trattato la vendita tramite utenza telefonica ad un nickname reperito su whatsapp.

Avverso l’ordinanza era presentato ricorso in Cassazione per mancata motivazione da parte del Tribunale sul fatto che “le transazioni per l’acquisto dei bitcoin avvenivano in modo assolutamente spersonalizzato, senza nessun contatto tra venditore e acquirente, per cui il venditore non poteva avere alcuna consapevolezza circa la provenienza (ndr. delittuosa) della provvista utilizzata dal compratore per l’acquisto di criptovalute (ndr. requisito essenziale affinché si concreti il reato di riciclaggio) né “vi era (traccia) del loro concorso nei presunti delitti di truffa”, reati presupposto senza i quali il delitto di riciclaggio non potrebbe essere contestato: a detta della difesa, sarebbe dunque mancato il dolo, l’elemento intenzionale del reato, senza del quale la fattispecie non può considerarsi integrata.

Tuttavia, la Corte, tenuto conto della condotta dell’indagato che non si limitava ad occuparsi di acquisto e cessione di criptovalute, ma si inseriva attivamente nella apertura di conti correnti sui quali confluivano i proventi delle truffe, successivamente utilizzati per le relative transazioni (a detta del Tribunale “circostanze difficilmente compatibili con un atteggiamento psicologico diverso dal dolo”) giungeva a confermare la sussistenza del dolo di riciclaggio.

Quanto all’abusivismo finanziario, il difensore eccepiva che “gli strumenti di pagamento non sono strumenti finanziari“; scelta difensiva in linea con gli orientamenti della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che, con preciso riferimento alle operazioni di cambio di bitcoin contro valuta tradizionale, ritiene che gli stessi non abbiano altra finalità oltre a quella di mezzo di pagamento.

Era quindi sulla fondamentale considerazione delle valute virtuali come mezzi di pagamento e non come prodotti di investimento che la difesa cercava di sottrarre le condotte perpetrate alla normativa in materia di strumenti finanziari.

Ma in anche in questo frangente si registra un ulteriore diniego della Corte: essa afferma che “la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, tanto che sul sito, nel caso di specie, si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa” associando i fatti contestati ad ”attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti del TUF (ndr. poteri CONSOB), la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c) dello stesso (ndr. “è punito con la reclusione da uno a otto anni e con la multa da euro quattromila a euro diecimila chiunque, senza esservi abilitato ai sensi del presente decreto, offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento”).

Relativamente all’ultimo motivo di ricorso, la Corte ha precisato che “anche l’uso di una carta di  credito da parte di un terzo, autorizzato dal titolare, integra il reato di cui all’art. 493-ter c.p., in quanto la legittimazione all’impiego del documento è contrattualmente conferita dall’istituto emittente al solo intestatario, il cui consenso all’eventuale utilizzazione da parte di un terzo è del tutto irrilevante, stanti la necessità di firma all’atto dell’uso, di una dichiarazione di riconoscimento del debito e la conseguente illiceità di un’autorizzazione a sottoscriverla con la falsa firma del titolare, ad eccezione dei casi in cui il soggetto legittimato si serva del terzo come “longa manus” o mero strumento esecutivo di un’operazione non comportante la sottoscrizione di alcun atto”.

La Corte di Cassazione rigettava quindi il ricorso ricomprendendo i  bitcoin nella famiglia degli strumenti finanziari e rendendo applicabile alla loro vendita l’art. 91 del TUF: da qui la loro sottoposizione ai poteri CONSOB per la tutela degli investitori e del mercato con la potenziale irrogazione delle sanzioni viste più sopra.

L’ordinanza impugnata è stata quindi annullata con rinvio per nuovo giudizio sullo specifico punto e con la dichiarazione del seguente principio di diritto secondo cui: “In tema di intermediazione finanziaria, la vendita “on line” di moneta virtuale “bitcoin” pubblicizzata quale forma di investimento per i risparmiatori – ai quali vengano offerte informazioni sulla redditività dell’iniziativa – è attività soggetta agli adempimenti previsti dalla normativa in materia di strumenti finanziari, di cui agli artt. 91 e ss. t.u.f., la cui omissione integra il reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c), t.u.f.

 

 

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