Cass. civ., sez. I, ord., 17 maggio 2023, n. 13521 

“Il danno causato dal consulente finanziario all’investitore incauto non coinvolge la responsabilità per danno della banca”

Il Tribunale di Chiavari, pronunciandosi in merito ad una domanda di risarcimento promossa da una cliente, rigettava le domande proposte nei confronti dell’istituto di credito condannando il solo consulente, dipendente della stessa banca, al ristoro dei danni. 

L’appello, proposto dalla cliente soccombente in primo grado, era altresì respinto dalla competente Corte; la cliente ricorreva dunque per cassazione con due motivi di impugnazione.

Il primo motivo opponeva la violazione e falsa applicazione dell’art. 2049 c.c. in tema di responsabilità del datore di lavoro per l’operato dei dipendenti (“I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”).

Recita la motivazione della sentenza che la  ricorrente rileva che la responsabilità della banca per il fatto illecito dei propri dipendenti si configura ogni qualvolta il fatto lesivo sia stato prodotto, o quantomeno agevolato, da un comportamento riconducibile all’attività lavorativa del dipendente, e quindi anche se questi abbia operato oltrepassando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all’insaputa del suo datore di lavoro, sempre che sia rimasto comunque nell’ambito dell’incarico affidatogli”.

Fermo quanto sopra, la decisione della Suprema Corte si è però fondata sulla propria consolidata giurisprudenza sul punto che sancisce essere “la responsabilità dell’intermediario per i danni arrecati dai propri promotori finanziari esclusa ove il danneggiato ponga in essere una condotta agevolatrice che presenti connotati di anomalia, vale a dire, se non di collusione, quantomeno di consapevole acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore”.

La stessa Corte di appello aveva già statuito che, avuto riguardo “alla condotta gravemente incauta dell’appellante, segnata da anomalie percepibili da chiunque abbia una minima pratica di rapporti bancari …. avrebbero dovuto consigliare la signora (omisis) ad un atteggiamento di maggiore prudenza“.

Il secondo mezzo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. (“il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo”) in relazione all’art. 2049 c.c. citato più sopra.

Questo rilievo, di carattere procedurale, è connesso, in tale causa, al reclamato riconoscimento di prova di un documento disconosciuto da parte avversa. Infatti, la ricorrente, censurava la decisione di appello “per aver trascurato che …. (ndr. il consulente finanziario) era stato condannato con sentenza passata in giudicato al ristoro del pregiudizio da essa patito”: ciò, a detta della cliente ricorrente, avrebbe dovuto comportare che il danno potesse considerarsi provato anche nei confronti dell’istituto di credito datore di lavoro del consulente finanziario.

Entrambi i motivi di ricorso sono stati ritenuti, rispettivamente, infondato il primo ed inammissibile il secondo, determinando sentenza di legittimità sfavorevole alla cliente che si è vista onerata anche delle spese di giudizio.

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