Il caso in esame è quello di clienti che convenivano in giudizio la loro Banca affinché il Giudice dichiarasse l’invalidità degli ordini di investimento effettuati su loro ordine (nel caso di specie i titoli erano obbligazioni Parmalat). L’ulteriore domanda tesa ad ottenere la risoluzione per inadempimento dei relativi contratti, stante la violazione dell’obbligo informativo da parte dell’intermediario, era accompagnata dalla richiesta di condanna alla restituzione del capitale investito ed al risarcimento del danno.

Il Tribunale di Firenze accoglieva le domande degli investitori accertando l’inadempimento della banca e dichiarando la risoluzione dei contratti sottostanti nonché la sola condanna alla restituzione del capitale investito; la Corte d’Appello competente, riformando la sentenza di primo grado, accoglieva l’impugnazione proposta dall’istituto di credito. Tuttavia, pur confermando la sentenza di primo grado per quanto attiene alla risoluzione dei contratti, essa ha escluso la condanna della banca al risarcimento dei danni a favore degli investitori ritenendo non sussistere il nesso causale fra l’inadempimento all’obbligo informativo e i danni patiti dai clienti. Il presupposto della decisione del giudice di secondo grado è fondato sul convincimento che i clienti, alla luce delle loro pregresse scelte di investimento orientate al puro rischio, avrebbero comunque deciso di effettuare l’investimento oggetto della querelle giudiziaria anche se la Banca li avesse adeguatamente informati circa i rischi ad esso connessi.

Gli investitori avanzavano ricorso per Cassazione contestando la sentenza della Corte di Appello per violazione degli articoli 21 e 23 TUF (articoli del testo Unico della Finanza che normano gli obblighi degli intermediari e la formulazione dei contratti d’investimento) nonché degli articoli 26, 28 e 29 del Regolamento Consob n. 11522 del 1998 (che contengono sia norme di comportamento che di rispetto delle informazioni fra intermediari e clienti nonché regolamentazione delle cd. operazioni non adeguate): in buona sostanza, l’inadempimento degli obblighi informativi dell’intermediario che, allorquando correttamente adempiuti, non avrebbero spinto i clienti ad investire in quei titoli.

I Giudici di Legittimità, presa cognizione del caso, hanno cassato la decisione della Corte di Appello di Firenze nella parte in cui aveva ritenuto che fosse rilevante ed idonea ad eliminare il nesso causale tra condotta della banca e danno lamentato dai clienti, la prova degli investimenti effettuati in precedenza da questi ultimi in strumenti finanziari speculativi e rischiosi.

Nel motivare la sua sentenza, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il motivo sottoposto dai ricorrenti evidenziando come gli articoli delle disposizioni citate impongano agli intermediari finanziari il rispetto dei comportamenti e degli obblighi previsti.  Inoltre, secondo regola generale dell’art. 1218 c.c. (articolo che regola la responsabilità del debitore) nonché secondo “i principi del corretto riparto degli oneri probatori, l’investitore che lamenti la violazione degli obblighi informativi posti a carico dell’intermediario, deve allegare specificatamente l’inadempimento di quest’ultimo, mediante una sintetica ma circostanziata indicazione delle informazioni che sarebbero state omesse, fornendo la prova del danno e del nesso di causalità tra inadempimento e danno; nesso che sussiste se  l’investitore avesse desistito dal compiere l’acquisto se fosse stato adeguatamente informato sui rischi dello stesso. Incombe invece sull’intermediario provare che tali informazioni sono state fornite, ovvero che esse esulavano dall’ambito di quelle dovute”. La Suprema Corte ha ritenuto che la Corte di Appello abbia errato nel giudicare: essa avrebbe basato il proprio convincimento sul fatto che l’omissione dell’intermediario a fornire le opportune informazioni a clienti avvezzi ad investimenti rischiosi non li avrebbe comunque fatti desistere dall’investimento rischioso.

In buona sostanza, le pregresse scelte di investimento non sono sufficienti a provare che la Banca abbia assolto ai suoi obblighi informativi verso il cliente.

In tema di risarcimento del danno per la perdita del capitale investito è necessario che l’intermediario provi, ex art. 23 TUF, di aver adempiuto ai suoi obblighi informativi sia per quanto attiene alle specifiche caratteristiche del titolo oggetto di acquisto che al suo grado di rischiosità; per parte sua, l’investitore deve provare il nesso causale esistente tra l’inadempimento dell’obbligazione informativa in capo all’intermediario ed il pregiudizio patrimoniale che ha subito per effetto dell’investimento effettuato in carenza di adeguate informazioni.

È innegabile che l’intermediario ha l’obbligo di fornire all’investitore un’informazione atta a soddisfare le specifiche esigenze del singolo rapporto, in relazione alle caratteristiche personali ed alla situazione finanziarie del cliente; sicché l’assolvimento di tale obbligo implica la formulazione da parte dell’intermediario di indicazioni idonee a descrivere la natura, la quantità e la qualità di prodotti finanziari ed a rappresentarne lo specifico coefficiente di rischio. Siffatti obblighi impongono allora all’intermediario di comunicare all’investitore tutte le notizie conoscibili in base alla necessaria diligenza professionale, indicando le specifiche ragioni idonee a rendere un’operazione inadeguata rispetto al suo profilo di rischio.

In questa prospettiva, ad avviso della Corte di legittimità, la prova del nesso causale non è eliminata dal mero rilievo di elementi generici, come il profilo speculativo o l’elevata propensione al rischio dell’investitore, dovendosi escludere che quest’ultimo possa accettare anche i profili di rischiosità del prodotto finanziario a lui ignoti ed invece conosciuti o conoscibili da parte dell’intermediario.

Aggiunge dunque la Corte di Cassazione che l’obbligo positivo specifico dell’intermediario di provare il proprio adempimento sarebbe vanificato se si ritenesse di poterlo esonerare dal fornire informazioni sul grado di rischio di perdita del capitale connesso ad un prodotto finanziario nei confronti di un investitore qualificato “speculativo”; al contrario, ad avviso dei giudici di legittimità, il grado di rischio è direttamente proporzionale al livello di puntualità delle informazioni.

In conclusione, l’adeguatezza dell’operazione al profilo di rischio del cliente e la buona conoscenza del mercato finanziario da parte sua sono totalmente privi di valore probatorio quanto alla circostanza che il cliente stesso, se informato, avrebbe comunque proceduto all’acquisto. Il fatto che un investitore propenda per investimenti rischiosi non toglie, infatti, che egli selezioni tra i titoli rischiosi quelli aventi a suo giudizio maggiore probabilità di successo, grazie appunto alle informazioni che l’intermediario è tenuto a fornirgli. La buona conoscenza del mercato da parte del cliente è semmai indizio della sua capacità, ove concretamente informato, di valutare i prodotti consigliati dall’intermediario, la loro aleatorietà e corrispondenza al suo profilo di rischio.

In merito all’onere della prova, i giudici di legittimità hanno motivato chiarendo che al riscontro dell’inadempimento degli obblighi di corretta informazione consegua l’accertamento in via presuntiva del nesso di causalità tra il detto inadempimento ed il danno patito dall’investitore; presunzione che spetta all’intermediario superare dimostrando che il pregiudizio si sarebbe comunque concretizzato quand’anche l’investitore avesse ricevuto le informazioni omesse.

La previsione di una presunzione legale, tuttavia, può non essere esplicitata e può derivare, in modo implicito ma inequivocabile anche da un complesso sistematico di disposizioni di legge che la implichino in modo logicamente e giuridicamente necessario. E’ fatta salva la possibilità di prova contraria con la quale l’intermediario dimostri – sulla base di elementi univocamente concludenti – che il cliente pur avendo ricevuto la specifica informazione omessa, avrebbe comunque confermato la scelta. Elementi questi che però non possono consistere in una generica propensione al rischio, desunta da scelte intrinsecamente rischiose pregresse, perché l’investitore – speculativamente orientato e disponibile ad assumersi i rischi – deve poter valutare la sua scelta speculativa e rischiosa nell’ambito di tutte le opzioni dello stesso genere offerte dal mercato ed alla luce dei fattori di rischio che gli sono segnalati.

La Corte di Cassazione ha dunque sancito il seguente principio di diritto: “dalla funzione sistematica assegnata all’obbligo informativo gravante sull’intermediario, preordinato al riequilibrio dell’asimmetria del patrimonio conoscitivo-informativo delle parti in favore dell’investitore, al fine di consentirgli una scelta realmente consapevole, scaturisce una presunzione legale di sussistenza del nesso causale fra inadempimento informativo e pregiudizio pur suscettibile di prova contraria da parte dell’intermediario; tale prova, tuttavia, non può consistere nella dimostrazione di una generica propensione al rischio dell’investitore, desunta anche da scelte intrinsecamente rischiose pregresse, perché anche l’investitore speculativamente orientato e disponibile ad assumersi rischi deve poter valutare la sua scelta speculativa e rischiosa nell’ambito di tutte le opzioni dello stesso genere offerte dal mercato, alla luce dei fattori di rischio che gli sono stati segnalati”.

 

 

 

 

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